'Dirupi d'Abruzzo sono la mia reggia...'. 50 anni fa moriva il poeta Clemente Di Leo

"E’ lieve la morte, leggera. Ed è bello andarsene via in silenzio, partire da giovani per essere risparmiati dal mondo …".

Se ne andava nel fiore della giovinezza, Clemente Di Leo, a soli 24 anni, il 4 luglio di cinquant’anni fa.

A Colledimacine (Ch), il suo paese natio, la “reggia azzurra”, lo chiamavano, il “poeta in poesia”, per evidenziare il suo valore. Un talento che il ragazzo è grato di possedere. "E’ magnifico essere poeta. Hai in gola un vaso di marmellata e nelle viscere un velo di seta che preso anche da un’aquila o da un missile e tirato per sempre negli spazi non si arrende mai, della sua infinitezza anzi può avvolgere tutto l’universo […]".

Dino, come lo chiamavano in famiglia, pubblicò molti componimenti, gelosamente custoditi dai fortunati che sono riusciti ad acquistare le sue raccolte, oggi quasi introvabili.

Nato il 30 marzo 1946, nonostante la voglia di visitare il mondo, fu costretto a rimanere nel borgo natio, a causa di una malformazione cardiaca che non gli permise una vita frenetica. Iniziò a dedicarsi alla poesia da autodidatta, confrontandosi con la maestosa letteratura europea e intervenendo, con presenza vivace e polemica, ai fermenti che animavano negli anni Sessanta i convegni di poesia nella provincia di Chieti.

Quando Dino finì le scuole elementari il dottore consigliò alla madre Marianna Delli Pizzi, di non fargli proseguire gli studi, perché ciò lo avrebbe affaticato troppo. Ma lui, bramoso del sapere, si comprò i libri e studiò da solo. Con passione e senza risparmio di energie. Così, in breve, raggiunse un alto livello di preparazione, che gli permise di affinare il suo stile. Di Leo iniziò a comporre quando aveva solo otto anni.

Bruciò, come lui stesso racconta, più di 2 mila versi. Si salvarono dalla fiamma quelli che egli reputò essere i migliori.

Ma chi avrebbe mai pubblicato la raccolta di un diciassettenne?.

Un giorno Clemente Di Leo rincasò ridendo a crepapelle, gridando felice: «Ci sono cascati, ci sono cascati».

Il primo libro

Il poeta, che di propria tasca aveva pagato la stampa della sua prima vera opera, dal titolo “Cimeli”, per renderla appetibile agli acquirenti, s’era inventato una storia particolare. Prima di tutto Clemente Di Leo era l’editore che aveva raccolto gli scritti di un suo giovanissimo amico straniero, Massimo Rocovic. Dino si scrisse anche la prefazione, spacciandosi per Leo Fosco e avvertendo il pubblico: "Cose non comuni non si possono capire da comuni individui".

Così è riportato nella nota introduttiva: "Nell’ora più critica della letteratura italiana, adesso che la sfrontata pubblicità e premi spesso scandalosi accecano le masse, ecco sorgere la luce di Massimo Rocovic, nato appena nel 1946 – da notare la coincidenza con la sua data di nascita – che tra il superficialismo dannunziano e l’inaridito e quasi estinto ermetismo resterà certamente una delle voci poetiche più autentiche e singolari del nostro Novecento".

Nel frattempo cercò di collegarsi col gruppo pescarese della "Quinta genenerazione", capeggiato da Renato Minore, ma distaccandosene subito, "[…] convinto di non poter esaurire la propria vena creativa nell’artificio della sperimentazione linguistica, sull’esempio del “gruppo ‘63”, sentendosi come divorato dall’urgenza incontenibile tipica di un enfant terrible, che vuol forgiarsi con la poesia uno strumento di confessione e di lotta capace di spaziare dal privato al sociale".

Il poeta in un’occasione rivelò: "Mi sono ribellato all’esistenza divenendo forma astratta e puramente gratuita. Ma così non valgo un’albicocca. Non sono poeta letterato ma poeta dell’essenza. Non appartengo alla poesia delle lettere ma a quella vissuta, sentita nella verità del mio spirito".

I viaggi in autobus a vender poesie

Dino Di Leo viaggiava in autobus e andava soprattutto a Pescara, sia per consultare le biblioteche e prendere in prestito pacchi di volumi da leggere, sia per vendere i suoi libri. Camminava sulle spiagge adriatiche, fermava i bagnanti e proponeva loro l’acquisto di “Cimeli”, di “Frantumi di una reggia azzurra”, di “Una lunga puzza”… e diceva: «Costa 5 mila lire, ma se vi fa piacere potete dare qualcosa in più per favorire la pubblicazione della prossima opera».

I bibliotecari della De Meis di Chieti lo prendevano in giro.

Quando vedevano arrivare quel ragazzino che abitualmente affrontava tutte quelle ore di viaggio pur di prendere in prestito le opere di Leopardi, di D’Annunzio, di Pascoli gli dicevano: "Queste letture sono tutte troppo difficili per te, ma che ci puoi capire!?" Dino rispondeva: "Vedremo".

Un giorno gli stessi bibliotecari incontrarono suo padre e gli raccontarono di come il figlio, tornato a restituire i libri, li aveva lasciati a bocca aperta mentre parafrasava i contenuti. "Noi lo punzecchiavamo non perché pensavamo fosse poco intelligente – si giustificarono – ma perché è davvero tanto piccolo per cimentarsi con testi così impegnativi".

La fama

La svolta per la sua carriera artistica avvenne nel giugno del 1970 quando vinse con “Gilgamesh”, un poemetto di taglio narrativo e leggendario, il premio aquilano la “Madia d’oro”. Per la prima volta la sua opera ebbe un editore ed una vera introduzione corredata da Giuseppe Porto: "La poesia di Clemente Di Leo scaturisce dalla roccia, dagli stagni, dalla zolla, dalle cantine, dalle carte del tressette, dal sole. E’ tutto strano nella vita e nell’opera di questo abruzzese cresciuto come un toro, ribelle e spavaldo, di questo avversario della letteratura e del commercio culturale, autodidatta dalle molte e disordinate letture: ma tutto vi è autentico, come un poderoso muggito, un’eruzione o un sisma, o come un’inondazione e un’esplosione stellare, o anche come il grugnito dell’amico maiale e la morte di un fiore".

L'addio

Il 4 luglio del 1970, Dino di ritorno dall’Aquila, ove si era recato per ricevere il suo premio, volle festeggiare questo evento felice, con i suoi amici.

A causa delle sue condizioni di salute gli era proibito bere, mangiare eccessivamente, sregolatamente e affaticarsi.

Quella notte bevve molto, mangiò a crepapelle, e stette fuori quasi fino all’alba, era radioso ed appagato della sua conquistata gloria. E poi si mise a scrivere alla fioca luce. "Non è il caso che riposi un po’" - gli chiese la madre. "Non ancora…", rispose alzando appena lo sguardo.

La mattina, mentre la signora Mariannina sbrigava le faccende sentì uno strano rumore. Si affacciò alla finestra che dava sulla strada, per vedere se provenisse da lì, ma non c’era nulla. Il rumore diventava sempre più forte. Pensò di guardare in camera di Dino. Sconvolta si accorse che era lui. Era lui che non riusciva a respirare ed emetteva quel rantolo soffocato. Corse fuori e urlò chiedendo aiuto. Accorsero subito, ma non ci fu nulla da fare. Il suo Dino era morto.

"La notte vien meno, e sorgendo dorata la luce si dileguano le ombre: le vette brillano mormorando alla brezza, mentre nel vuoto tramonta la luna. Leggiadra sui floridi colli corre la vita, e nera nell’atrio buio della vecchiezza erra e sparisce la morte".

Il funerale

Tanta gente partecipò alle esequie, da tutto l’Abruzzo. Tra loro quei lettori che Clemente Di Leo aveva conquistato, con il suo impeto e con la sua passione.

Gli amici di quella sera, ricordando, ipotizzarono che forse Dino, quella notte di eccessi si era voluto lasciar morire, quasi per spegnersi nel momento più alto della sua vita, di gioia, soddisfazioni e riconoscimenti.

Il premio materiale, quello, non fece in tempo a ritirarlo, dovette farlo il padre…

Nel ricordarlo, nel cinquantenario della morte, vogliamo salutarlo con questi ultimi versi, che sembrano descrivere al meglio quello che credeva lo aspettasse, nell’inizio della sua vita spirituale: "Volato sull’ultimo cielo inoltre non può starci che una pagina bianca".

Conny Melchiorre

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